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Da direttore di gara a direttore di arbitri: Stefano Braschi ci racconta il suo incarico di “Mister” dei Fischietti


Sarebbe potuto durare per ore. E non ci saremmo stancati. Come non ci si stanca a sentire un amico raccontare le sue storie, le sue avventure. E dall’alto della sua esperienza ce ne avrebbe potute raccontare molte di cose. Dal derby di Mondragone, quando mandò un dirigente troppo loquace fin sugli spalti prima di riprendere la partita, fino alla celebre Lazio – Inter di Coppa Italia, quando ad osservare il rosso del suo cartellino si ritrovarono Colonnese, Bergomi e Zanetti in meno di due minuti.
Una finale di Champions nel 2000 a Parigi, una di Coppa delle Coppe nel 1998 a Stoccolma e decine di gare ad “alta tensione” tra Italia, Europa e resto del Mondo, senza disdegnare le gare per Nazionali. Con un palmares del genere molti altri si sarebbero seduti e avrebbero tediato gli astanti con noiose lezioni, invece lui ha preferito fare quattro chiacchiere con noi, così, come se ci conoscessimo da sempre.
Stefano Braschi, designatore, o allenatore, come ama definirsi, degli arbitri della CAN A è stato nostro graditissimo ospite nella riunione che si è svolta nella splendida cornice del “Salone delle Bandiere” di Palazzo Zanca, gentilmente concesso dal Municipio di Messina.
Di fronte a un “parterre de rois” formato dal Componente del Comitato Nazionale, Saro D’Anna, dal Commissario Straordinario del CRA Sicilia Pippo Raciti, insieme con il componente Orazio Postorino, oltre che dal nostro direttivo al completo, guidato dal presidente Lo Giudice e dal vicario Aveni, Braschi ci ha introdotto al mondo degli arbitri di Serie A. Quell’universo apparentemente tanto lontano si è dischiuso davanti a noi grazie alle parole del designatore, che minuziosamente ha analizzato tutti i dettagli che contribuiscono a rendere perfetta la prestazione della sua squadra. Sì, perché più che parlare di singoli, di elementi più o meno bravi, questo toscanaccio dall’aria burbera ma dai modi gentili, ha concentrato tutto il suo lavoro sulla creazione di una mentalità di gruppo, di uno spirito di corpo, tale da consentire ai suoi uomini di poter scendere in campo indossando una corazza impenetrabile a qualunque attacco. Sentendolo parlare si capisce subito la grande passione che lo accompagna in ogni giorno passato sul campo: allenare gli arbitri è molto più difficile che arbitrare una partita. Trovare le giuste motivazioni per un gruppo di ragazzi che settimanalmente scendono nella gabbia dei leoni del nostro campionato non è impresa facile come sembrerebbe. Ma è da una frase che si capisce bene il succo della sua opera: “una squadra ti esalta quando fai bene, ti protegge quando fai male”. Proprio in quest’ottica vanno interpretate le due grandi innovazioni apportate durante il suo mandato da dirigente del massimo organo tecnico nazionale: abolizione delle preclusioni verso qualsiasi squadra e introduzione del tetto massimo di designazioni per squadra fissato a quattro. Non possono esistere arbitri timorosi, senza fiducia nei propri mezzi, tutti devono essere in grado di poter dirigere qualunque partita, ma al tempo stesso non vi può essere, all’interno di una squadra vincente, la prima donna, l’elemento convinto di essere indispensabile. Come il buon padre di famiglia, Braschi, oltre a saper dosare al meglio bastone e carota, sarebbe pronto a fare fuoco e fiamme per difendere un suo ragazzo, facilmente preda, nell’era della medialità aggressiva di stuoli di moviolisti pronti a vivisezionare le prestazioni arbitrali alla ricerca di errori più o meno gravi. In un ambiente del genere è necessario che la preparazione, oltre che fisica, sia mentale: le motivazioni, gli stimoli, devono essere costanti per evitare quei cali di tensione che inevitabilmente portano alla confusione e all’errore.
Errore che, tuttavia, è connaturato alla stessa natura umana e che, quindi, deve essere compiuto in totale libertà, nonostante in ballo ci siano interessi multimilionari, che di qui a breve porteranno all’introduzione storica della tecnologia sui campi di calcio. Benché favorevole a questa innovazione il capo della CAN A non perde mai di vista quello che è l’elemento cardine: l’arbitro e la sua squadra. O meglio la squadra arbitrale. Il gruppo di 6, tra direttore di gara e collaboratori, già di per sé un’innovazione storica operata per prima dall’AIA, pronta a recepire le direttive IFAB in tal senso, deve funzionare al meglio per garantire un perfetto equilibrio ed una giusta suddivisione dei compiti.
Ma per arrivare a far parte del meglio, per arrivare a potersi
migliorare e raggiungere i propri obiettivi, il mezzo è solo uno: Sognare. È con questa annotazione, rivolta alle giovani leve, accorse in massa a questo appuntamento di gala, che questo sergente dal cuore tenero chiosa il suo intervento: “Il Sogno è l’espressione della democrazia, perciò ragazzi sognate. Credere nei propri sogni, e fare di tutto per raggiungerli, oltre naturalmente alla giusta dose di preparazione atletica e tecnica, è la molla che può trasformare un arbitro qualunque in un top class”.
A chiusura di questa splendida riunione, la nostra Sezione ha voluto omaggiare l’ospite d’onore di un crest con la riproduzione della prima moneta coniata dalla zecca messinese.
La serata è poi proseguita presso il locale “Officina del Gusto” di Capo Peloro dove, con l’incantevole scenario dello Stretto a far da cornice, abbiamo continuato a creare la nostra squadra, che magari un giorno, potrà vedere uno dei suoi elementi su qualcuno di quei campi prestigiosi calcati da un grande come Stefano Braschi: da Prato a Parigi, con un sogno nel cuore e una certezza nella testa.

Valerio Villano Barbato





Prima della riunione, la "redazione" di www.aiamessina.it ha avuto il privilegio di poter fare diretta conoscenza e conversare affabilmente con Stefano Braschi nei locali della Sezione. È stato un incontro davvero interessante e piacevole con una persona che, al di là della propria immagine pubblica, ha dimostrato di essere carismatica, schietta e molto genuina.
Il passaggio da arbitro a designatore: quali  sono le differenze ?
Più che designatore, io mi definisco allenatore degli arbitri. Ciò è più difficile rispetto a dirigere una gara perché ci vuole un approccio diverso. È chiaramente più complicato allenare gli arbitri che arbitrare.
Quali cambiamenti ci sono stati nell’approccio alla gara dagli anni ’90 ad oggi?
È ovvio che l’arbitro è cambiato, così come è cambiato il mondo e come sono cambiate le altre persone, il modo di vivere. Non so se in meglio o in peggio, ma il cambiamento c’è stato. Io ho avuto la fortuna/sfortuna di far parte di un momento in cui si passava da un dilettantismo puro, dove ognuno faceva per conto suo, ad un momento professionistico, quando con Bergamo e Pairetto vi è stato l’avvento dei raduni. Siamo diventati così "professionisti" sia per compensi che per attività. Questo l’ho vissuto nei miei ultimi anni della mia carriera arbitrale. La figura dell’arbitro si è evoluta, soprattutto a livello atletico, ma si è evoluta ancor di più la figura dell’assistente. C’è anche un atteggiamento diverso.
Anche il rapporto tra arbitro ed assistente si è sviluppato?
Sì, chiaramente in passato l’assistente era quasi una figura di accompagnamento dell’arbitro, seppur importante. Nel calcio moderno ha un ruolo fondamentale, le partite vengono decise di più dagli assistenti che dagli arbitri. È chiaro che servono persone di grande qualità e personalità. Arbitri e assistenti ormai non possono prescindere da un approccio di assoluta professionalità.
Un professionista sia dentro che fuori?
Assolutamente sì. I raduni che facciamo quasi ogni settimana a Coverciano lo dimostrano. L’allenamento è metodico. Io sono allenatore degli arbitri a tutti gli effetti, non solo designatore.
Come ci hanno sempre detto in Sezione, la nostra è la terza squadra che va in campo...
Ovviamente. Adesso in serie A gli arbitri sono 6. L’aggiunta dell’addizionale è una svolta epocale. L’arbitro centrale è un regista che deve sintetizzare e valorizzare il lavoro di tutti i suoi "collaboratori".
Come giudichi l’esperimento dell’addizionale?
L’addizionale ha portato risultati assolutamente positivi. Non possiamo eliminare con lui l’errore del tutto, ma tante difficoltà si attenuato. L’addizionale si occupa di una zona del campo che l’arbitro vede male.
E la tecnologia?
Ai prossimi mondiali non so se ci saranno gli "addizionali", ma ci sarà la tecnologia per il gol/non gol. Vedremo come andrà.
Il rapporto tra i tre vertici del mondo del calcio: AIA, FIGC, calciatori. Com’è? Ci sono momenti critici ?
Con la FIGC in questo momento il rapporto è ottimo. Con i calciatori è chiaro che ci sono esigenze contrapposte a volte, poi ci vuole la serenità delle due parti per costruire un rapporto serio e professionale, dove uno è calciatore ed uno è arbitro. Si devono rispettare i ruoli e bisogna remare insieme nella stessa direzione  per il corretto andamento della gara.
All’interno dell’AIA, ai massimi livelli, qual è il rapporto tra gli arbitri ? C’è ambizione, rivalità ?
L’ambizione è una molla che muove tutto, è importante che ci sia. Gli arbitri hanno comunque capito che non fanno più uno sport individuale, ma uno sport di squadra. Ci sono tante partite e tutti ottengono le proprie soddisfazioni. Poi è normale che c’è qualcuno che prevale.
La sfera privata dell’arbitro: l’uomo e l’arbitro, come si conciliano le due figure ?
Non è facile. Io faccio un altro lavoro, altri non lavorano, è difficile conciliare comunque. Non è facile unire il lavoro alla vita privata, alla famiglia, all’arbitraggio.
Hai ancora delle ambizioni personali da appagare ?
Io sono una persona fortunata perché sono arrivato al top sia a livello arbitrale che dirigenziale. Penso a fare le cose giorno per giorno. Lo sport va vissuto così. La fiducia mi è stata data va ripagata con il lavoro e la mia ambizione è fare bene domenica per domenica e cerco di trasmettere questa mentalità anche agli arbitri. Così come lo scopo per l’allenatore di una squadra è fare bene in campionato, il mio è quello di concludere al meglio la stagione. Per quanto mi riguarda sono al gradino più alto.  Il mio obiettivo era quello di dimostrare di far bene anche a livello dirigenziale e lo sto facendo, ma non ti regala niente nessuno e devi avere stimoli nuovi ogni settimana. È un ambiente particolare dove un giorno sei un dio ed un altro sei lo stupido di turno, dove un errore butta all’aria mille cose fatte bene.
Cosa pensi del rapporto arbitro / mass-media ?
La televisione, purtroppo, ha esigenze ragguardevoli. L’arbitro diviene un mezzo per fare audience. Siamo uno "strumento" per fare spettacolo e l’errore fa notizia. Quando non c’è l’errore è il mezzo errore a diventare errore, perché fa notizia, fa informazione. Non è un modo giusto di fare le cose, è un modello italico. Nei paesi anglosassoni, dove il calcio è molto importante, non c’è questa attenzione mediatica sull’arbitro, però questa è la realtà ed un arbitro di Serie A deve saper reggere le pressioni.
Sarà possibile in futuro vedere l’arbitro intervistato subito dopo una partita ?
Non lo so, i  tempi non sono ancora maturi. Magari l’arbitro intervistato una volta può fare notizia, la seconda anche, ma poi la gente si stufa.
Nella tua carriera hai arbitrato molte gare importanti e tra queste quattro finali di coppa, due Italia e due in Europa. Cosa deve avere un arbitro per arrivare a dirigere una finale di Champions League ?
Io credo che l’arbitro sia una miscela. La qualità fondamentale è quella tecnica, ossia capire il calcio, essere precisi nella rilevazione dei falli e molto uniformi e coerenti in questo. Poi c’è l’aspetto personale. Bisogna saper reggere le pressioni sia in campo che fuori. Poi bisogna essere preparati atleticamente. Bisogna avere anche una vita riservata: l’arbitro non deve andare nei giornali tutti i giorni. Poi deve avere autorevolezza, un modo di porsi naturale. Nel calcio moderno deve poi saper costruire rapporti personali seri con gli "addetti ai lavori" in campo. Questo è importante per arrivare a massimi livelli. Non so in che proporzione miscelare, ma chiaramente l’aspetto tecnico è il più importante. L’istinto poi è una cosa che non ti insegna nessuno, ma devi averla tu per andare avanti. Ci vuole un mix di tecnica, psicologia, prestanza atletica ed autorevolezza, che è più importante dell’autorità che oggi non è accettata da nessuno.

Simone Intelisano con
Valerio Villano Barbato



 
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